giovedì, 20 Febbraio 2025
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SanRemo, parlare della propria fragilità, in cui il pubblico, ormai anestetizzato dall’emotività facile.

Negli ultimi giorni si è parlato molto di un personaggio pubblico che, dopo anni passati a condividere (e monetizzare) la propria vita sui social, ha avuto un crollo personale. Ha dichiarato di soffrire di depressione e ha portato questa esperienza sul palco di Sanremo con una canzone che ha toccato molte persone.

Ma… C’è un ma. Perché c’è qualcosa che stona. Non è la canzone in sé, né il fatto che una persona famosa parli della propria fragilità. Il problema è il modo in cui questa vicenda è stata confezionata e il modo in cui il pubblico, ormai anestetizzato dall’emotività facile, l’ha abbracciata acriticamente: un’ondata di pietismo che ha trasformato questa narrazione in una sorta di “merito artistico”, come se il dolore fosse automaticamente sinonimo di valore.

Si è quasi arrivati a dire che dovesse vincere solo perché ha sofferto, come se la sofferenza certificasse il talento. Ma c’è di più: è come se la depressione diventasse non solo un’arma per guadagnare consenso, ma anche una giustificazione per tutto ciò che è accaduto prima.

Per anni, questo personaggio ha mostrato atteggiamenti aggressivi, arroganti, manipolatori, narcisistici, ha voltato le spalle a chi gli era accanto nel momento di crisi – e ora tutto questo dovrebbe essere dimenticato perché soffre? Perché il suo dolore oggi è in primo piano? E qui viene il punto cruciale: quando il racconto del disagio diventa uno scudo per evitare responsabilità, rischiamo di perdere di vista la differenza tra sensibilizzazione e spettacolarizzazione.

Certo, il disagio mentale esiste e va riconosciuto, ma questo non significa che ogni storia debba essere accolta senza spirito critico, né che la sofferenza personale renda automaticamente migliori. Forse dovremmo chiederci se stiamo davvero imparando a comprendere la salute mentale o se stiamo solo costruendo nuovi miti, in cui il ruolo della vittima diventa un lasciapassare per il successo e, peggio ancora, per l’assoluzione morale.

Sembra di stare in una lunga infinita puntata di uno dei programmi spazzatura della De Filippi, in cui qualunque disagio viene giustificato per farlo diventare spettacolo. Basta con questo pietismo facile, con l’idea che il dolore renda automaticamente migliori, con la spettacolarizzazione della sofferenza. Basta con la narrazione che trasforma ogni fragilità in un’arma per evitare responsabilità!

Questo atteggiamento paternalistico non aiuta nessuno, anzi, solleva chiunque dalla necessaria consapevolezza e dalla responsabilità delle proprie azioni. La vera consapevolezza non si può misurare in posizioni in classifica, applausi o standing ovation, ma in cambiamenti concreti nel modo in cui affrontiamo questi temi, lontano dalle luci dei riflettori. Viviana Hutter

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